Solipsismi 2 – Scombussolati, s’imb…arc…hi chi può!!

A proposito di ‘Diluvio’ e di ‘Arca’ (proprio ‘Quelli’):

Jonah girò il sacchetto rovesciando gli ultimi cracker sulla moquette, insieme a una pioggia di polvere arancione. “Tu conosci Noè?” gli chiese.

“Noè della Bibbia?”

Jonah annuì.

“Sì che lo conosco.”

“Lui ha fatto morire almeno cento animali” disse Jonah.

“Veramente?”

“Li ha lasciati annegare. Ne ha presi solo due di ogni tipo.”

“Ah, in quel senso.”

“Ha preso due giraffe e ha lasciato annegare tutte le altre.”

“Be’, sai, non aveva molto spazio.”

“Ma dove l’aveva comprata, la benzina?” chiese Jonah.

“Come, scusa?”

“Dove l’aveva comprata la benzina per la sua nave se lui era l’unico al mondo?”

“Ah, non aveva bisogno di benzina” gli spiegò Liam. “La sua nave non andava a benzina.”

“Allora era una barca a vela?”

“Be’, sì, mi sa di sì” rispose Liam. Anche se a pensarci bene, nelle raffigurazioni dell’arca non aveva mai notato vele.

“In realtà” disse , “credo che non avesse bisogno nemmeno delle vele, perché tanto non andava da nessuna parte!”

“Come non andava da nessuna parte !”

“Sì, non si poteva andare da nessuna parte. Cercava solo di rimanere a galla. Gli bastava galleggiare, non aveva bisogno di una bussola, un timone o un sestante…”

“Cos’è un sestante?”

“Credo che sia uno strumento che capisce le direzioni dalle stelle. Ma Noè non aveva bisogno di capire le direzioni, perché tanto tutta la terra era sott’acqua e quindi non cambiava niente.”

“Ah” disse Jonah. Sembrava avere perso ogni interesse. Si leccò la punta di un dito e cominciò a raccogliere le briciole dalla moquette.

Liam pensò di dirgli che era solo una specie di fiaba, ma non voleva far arrabbiare ancora di più Louise.

Anne Tyler, ” LA BUSSOLA DI NOE’ “, TEA, 2011, (su licenza GUANDA, 2009), p. 201-202

Intanto, che archetipo formidabile, l’arca, a pensarci, proprio nella sua natura ibrida di barca e di casa, a rappresentare la duplice, ambigua, inclinazione negli umani, insieme nomadi e sedentari, stanziali e vaganti (divaganti e stravaganti)… tale suggestione deve esser ben forte nella cultura britannica, quell’Anglia sospesa tra i mari solcati dalla Royal Navy e l’ ‘home sweet home’… la Tyler ne è significativa esponente, erede e discendente di un popolo traslocato (appunto!) nel ‘Nuovo Mondo’ (che cosa avranno imbarcato, trasportato, salvato, del loro vecchio mondo i Padri Pellegrini, su quella riedizione di arca che fu il Mayflower, cosa avranno scartato, abbandonato, eliminato…).

Nel dialogo riportato in apertura Liam Pennywell, sessantenne di Baltimora, è alle prese col nipotino Jonah, figlio di sua figlia Louise e di “una specie di fondamentalista cristiano”. Liam, laureato in filosofia, ha da poco perso il lavoro di insegnante in una scuola poco prestigiosa della città: messo a riposo per aver raggiunto l’età pensionabile, decide di lasciare il vecchio e troppo grande appartamento del centro per trasferirsi in “un bilocale in un complesso moderno di periferia, vicino alla circonvallazione di Baltimora.”

Il trasloco apre e avvia la narrazione , evento – movimento – sommovimento, in vista del riassetto, in un’esistenza che sta volgendo alla fase finale. Operazioni, implicazioni, situazioni sono quelle, reali e metaforiche, terribilmente simboliche, dell’imbarco e del trasbordo: selezionare, eliminare, ridurre, compattare, imballare, caricare, trasportare, scaricare, ricollocare.

Un’occasione, fra l’altro, pensa Liam, per semplificare, scartare le troppe cianfrusaglie, riconoscere e salvare l’essenziale, quello che conta, quello che si vuole e vale la pena portare con sé… Eliminate vecchie riviste, buste e scatole stracolme di lettere e di schede, mobili ingombranti e brutti, fa un bagaglio compatto che entra nel furgoncino, uno dei più piccoli, noleggiato per la bisogna… scialuppa di salvataggio…piccola arca…

Già, il rapporto degli umani con le cose, i luoghi, gli oggetti… lo abbiamo visto in molti quel servizio fotografico, anche Liam se ne ricorda mentre raduna le sue suppellettili sul marciapiede – la quantità gli era sembrata modesta nelle stanze che si svuotavano, mentre lo spazio occupato all’esterno gli pareva imbarazzante – quel servizio fotografico apparso su “Life” o “National Geographic” che mostrava persone di varie parti del mondo in posa tra gli oggetti che possedevano: dalle poche cose che uscivano dalla capanna primitiva fino alla montagna di masserizie che arredavano la ‘material wealth’ di una famiglia americana media.

E poi il riassetto, la ricollocazione nel nuovo appartamento, più semplice e sobrio del vecchio, disadorno e lineare, sembra suggerire una nuova vita, essenziale e pura… meno gravata dalla materialità, più libera, si augura Liam… mi viene in mente quel che diceva un amico, anni fa, che viveva in un bell’appartamento, arredato con gusto eccentrico e creativo, di sentirsi troppo ancorato ad esso, di amarlo e proprio per questo avvertirlo quasi un peso a volte, avrebbe voluto poter mettere tutto in un baule, da portare con sé, contenitore più consono ad un’indole che percepiva intimamente nomade, insofferente, sia pure in modo sofferto, di vincoli, legami, gravami…

Ma è difficile eliminare, scartare: gli oggetti, come le persone, i legami, ritornano, riemergono, quelli abbandonati, quelli desiderati e mai avuti, quelli rifiutati… relitti, reliquie, ricordi, riemersioni, ossessioni, recuperi, persistenze: la sedia Windsor capovolta sulla testa del ragazzo che aiuta Liam nel trasloco, il televisore mai posseduto, il caminetto del vecchio appartamento, di cui il nuovo è privo, il portacravatte che equipaggia il nuovo armadio, lo struggente portachiavi di pelle di vitello consunta, la sedia a dondolo che si rivelerà troppo scomoda per accogliere la nuova disposizione del pensionato alla contemplazione e al riposo…

La nuova vita nel nuovo ambiente è segnata subito da un trauma, Liam, appena andato a dormire, la prima volta, nel suo nuovo letto, viene aggredito da un intruso e si ritroverà senza memoria dell’accaduto nel letto di un ospedale … la condizione transitoria e limbale introduce il tema del ricordo intrecciato a quello del cambiamento (già, l’arca della memoria…): Liam, che non ricorda nulla dell’aggressione, inizia un percorso ossessivo di recupero memoriale, a partire da quegli attimi, un pezzetto di esistenza, cancellati dalla commozione cerebrale, aggrappandosi all’incontro fortuito con Eunice, una ‘ricordatrice’ di professione, assoldata da un riccone anziano e smemorato per fargli da memoria esterna.

Dalla relazione (in)aspettata con Eunice, dall’unione (im)possibile di due destini segnati da un passato tanto rinnegato e condizionante quanto in larga misura fallimentare, Liam trarrà insegnamenti e riflessioni, capirà soprattutto che il passato – eredità, zavorra o equipaggiamento che sia o sia percepito – non si lascia mai del tutto alle spalle, riemerge e prepotentemente si ripresenta, non fosse che come bilancio o fantasma, più spesso come odiamata presenza o emergenza, la moglie defunta o quella da cui ha divorziato, i genitori distratti o incombenti, la sorella maggiore iperattiva e giudicante, le  figlie insondabili e bisbetiche, fastidiosamente invadenti, con relativi compagni e figliolanza, un marito inadeguato e teneramente sbagliato che Eunice non riuscirà a tener segreto per molto…

Lo scacco evidente che subisce la volontà-voluttà di Liam di isolarsi e allontanarsi dai fastidi del mondo e degli altri, dal retaggio e dalla zavorra del passato e dall’assedio del presente incombente è esemplare: insofferente e solitario per temperamento e scelta, in fondo non può e non sa fare a meno degli altri, si accorge di essere contento di accudire (il nipotino Jonah, così triste e serioso, la figlia Kitty, imperscrutabile adolescente, per esempio) e essere accudito (in ospedale era preso dal terrore di essere abbandonato dalle sue donne).

Quanto a me non ho potuto fare a meno di identificarmi ed empatizzare con questo anziano bilioso e solitario, un po’ inetto, non atto alla vita, molto agito da chi lo circonda, con quel destino di travet al di sotto delle potenzialità e aspettative, quel carattere remissivo e accomodante ma pure intimamente bizzoso e ribelle, il suo amore per la routine e la capacità di mandare tutto all’aria per un impulso o una spinta forte, il suo essere tragicamente e pateticamente esposto ai colpi di testa e a quelli sulla testa… ( per tacere dell’idiosincrasia e insofferenza per i corridoi polverosi e consunti dell’edificio scolastico in cui ha lavorato fino a un momento prima, le interminabili riunioni pomeridiane, le montagne assillanti di compiti da correggere…).

Osservo spesso il mio appartamento di single di ritorno, ho anch’io un matrimonio fallito alle spalle, doveva essere il luogo del riassetto, ha tutta l’aria di essere ancora, in gran parte, un furgoncino, (un’arca?), non ancora arrivato a destinazione, non ancora scaricato, c’è pieno di scatole e cose imballate, tante reliquie e oggetti non collocati né collocabili…

Devo essermi arenata… senza una bussola e parecchio scom…bussola…ta non so dove dirigermi, non vedo approdi a portata, neanche quello della pensione, né a breve né forse a lungo termine… eppure ho quasi raggiunto l’età, anche biologica (men…arca!).

Be’, ci ritornerò, sull’argomento, ora però, constatata l’epoché, tanto vale che opti per una sospensione funzionale, mi faccia una vacanzina al mare con mia sorella e mia madre – tre menadi solitarie e cocciutamente, tragicamente, solipsiste che non riescono a fare a meno l’una delle altre – farò un valigino con lo stretto necessario, una miniarca per un bagaglio essenziale, light… è già così pesante il vivere come, del resto, il non vivere…

Intanto, consiglio di leggere il romanzo della Tyler, che è una superba rappresentante di quella stirpe, molto ‘british’, di narratori ‘antropologici’, con quello sguardo sugli uomini e sulle cose, i luoghi, le situazioni del presente tra(n)smutante, i centri, i quartieri, gli edifici trasformati, degradati e sfigurati, le ricollocazioni del vivere, le cesure traumatiche e ancora poco leggibili nei paesaggi (dis)antropizzati…tra l’altro lei pure una campionessa di solipsismo, si evince dalle scarne note editoriali: “… Vive a Baltimora, custodendo gelosamente il suo isolamento, non concede interviste, si fa fotografare il meno possibile, non gira gli Stati Uniti e nemmeno il mondo per presentare i suoi libri…”

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