JAZZ E CULTURA POP

“Che ci facciamo in un negozio di moda per parlare di Jackson Pollock ?”

Luca Beatrice, curatore della mostra “Pollock e gli Irascibili”

 

Ho visitato recentemente la mostra milanese dedicata a “Pollock e gli Irascibili”. L’ho trovata molto interessante, anche se il riferimento a Pollock avrebbe giustificato una sua maggior presenza espositiva.

L’apparato critico è sufficiente, con qualche tentativo di collocare l’espressionismo astratto nell’ambito storico e culturale americano dell’epoca. Gli strumenti utilizzati sono in particolare due: un tabellone cronologico posto all’ingresso della mostra, e la presentazione del curatore, disponibile anche qui.

I riferimenti culturali sono spesso di tipo “popular”: il rock ‘n roll e le figure di Elvis Presley, Bill Haley; il cinema hollywoodiano e gli attori James Dean, Marlon Brando; in altri momenti, il curatore utilizza elementi della critica pop per presentare lo stesso Pollock, oppure gli scrittori e poeti della “beat generation”. In questi casi è forte l’accento sull’abbigliamento, la moda, i locali di tendenza, in una parola, sulla “coolness” dei protagonisti.

Se finora l’approccio ha funzionato, la sua applicazione al jazz è stata disastrosa. Si cita un solo disco e un solo protagonista: “Kind of blue”, di Miles Davis, del 1959. Nel tabellone cronologico, l’opera è presentata come il culmine del “cool jazz”; nel filmato, come l’inizio dell’intellettualizzazione del jazz, disco che segnerebbe la fine del jazz come musica di larga diffusione. Si dice altresì che il jazz, in quel periodo (gli anni ’50 del secolo scorso), è “cool” (arieccolo !), così come la musica che gli eroi della “beat generation” ascoltano e celebrano.

Sappiamo da tempo che la catalogazione (il “tagging”) è elemento essenziale della cultura pop. E’ rassicurante, semplifica e permette di parlare di ciò che non si conosce. Il “cool jazz” è stato per alcuni critici uno stile della musica jazz, anche se marginale (Polillo, Cerchiari); per altri (Franco, Zenni) solamente un modo di suonare (la “coolness, appunto), che certamente Miles Davis ha incarnato alla perfezione. In ogni caso, gli anni ’50 del ‘900 sono per il jazz un periodo ricchissimo, in cui si sono sovrapposti gli ultimi fuochi del be-bop (Parker morirà nel 1955), il cool, l’hard-bop, che nasce attorno al 1954, gli esordi del jazz modale, la musica di Coltrane, di Mingus, il primo Ornette Coleman. In sostanza, affermare che il jazz degli anno ’50 è stato precipuamente “cool”, mostra almeno una scarsa conoscenza della storia di questa musica.

Se finora lo spazio per l’interpretazione era molto ampio, per altre affermazioni diventa strettissimo. “Kind of blue” non è il culmine dello stile “cool”, ma è il disco seminale del “jazz modale”, tanto da trasformare il suo brano più celebre, “So what”, in materia di studio nei conservatori jazz. Questo disco non segna la fine del jazz come musica “popular”: ciò è avvenuto almeno quindici anni prima, con lo stile be-bop, nel quale i piccoli gruppi hanno sostituito le gradi orchestre del periodo swing. Da allora, la musica “popular” per i neri è diventata il “rhythm and blues” in tutte le sue declinazioni.

Per somma ironia, “Kind of blue” è uno dei dischi più venduti della storia del jazz (pare circa tre milioni di copie), ed è forse questa la ragione per cui è entrato nel Pantheon della cultura popolare, dove ha raggiunto Miles Davis, presente per esiti musicali, aspetto e storia personale.

Infine, la musica preferita di Kerouac e dei suoi colleghi non è il “cool jazz”, ma il be-bop. Parker è l’eroe della “beat generation”, bop è la prosodia di Kerouac secondo Henry Miller e altri critici.

Eppure, il disco di jazz ideale per la mostra era lì, pronto e apparecchiato, edito un anno dopo “Kind of blue”: è “Free jazz: a collective improvisation” di Ornette Coleman, manifesto dell’informale nel jazz. In copertina, un’opera di Jackson Pollock: “The White Light”.

 

1 thought on “JAZZ E CULTURA POP

  1. Già, non si può avere tutto: se il curatore è fashion, anche lui nella fretta dovrà generalizzare un pochino, sacrificando la precisione all’altare della semplificazione e a beneficio della popolarità.

    La mia ignoranza se possibile è ancora maggiore di quella del curatore, però non mi viene voglia di visitare questa mostra !

    In compenso mi piacerebbe rileggere con calma il saggio L’œuvre d’art à l’époque de sa reproduction mécanisée di Walter Benjamin perchè c’è qualcosa che non capisco. Se non sbaglio Benjamin disse nel lontano 1936 che con l’industrializzazione dell’arte ci saremmo liberati dell’aura e del mito (funzionale alle elites) dell’opera d’arte come unicum.
    Lui viveva in anni ben più bui dei nostri, nei quali l’aura (anche detta carisma) ce l’avevano anche certi politici che la usavano per abbindolare le masse: parla dell’ “esthétisation de la politique perpétrée par les doctrines totalitaires”.

    La Pop-Art arriva sulla scena 15 anni dopo la stesura di questo saggio e trasforma l’oggetto più dozzinale, rendendolo unico e quindi caricandolo di aura. Così dopo altri 60 anni ci tocca il curatore fashion che ci spiega l’aura del jeans strappato. Che se me lo strappo io sono un cretino, invece se lo strappa Jackson Pollock o Calvin Klein è arte ovvero fashion.

    In parallelo a ciò negli anni ’60 l’estetizzazione della politica entra in una nuova era con la televisione, che trasforma la scelta del presidente degli Stati Uniti in una faccenda di sorrisi e in una gara di simpatia.
    In Italia invece dopo il bagno di sangue della dittatura ci siamo andati piano: bisogna aspettare gli anni ’90 e la discesa in campo dell’innominabile per ritrovare l’aura al centro dell’agone politico.

    Ho l’impressione che siamo vicini a una sintesi poderosa che lega vari temi calomelanici (mainstream, media …) ma ancora non mi torna tutto. Ci vorrebbe una generalizzazione azzardata …

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