OVE l'altrOVE? Di altri luoghi o nonluoghi

Quando sono in viaggio, visito posti, spesso mi capita, più o meno intenzionalmente, di ricondurre il nuovo che vedo al noto, fin troppo noto: per esempio un sabato, a Palma di Maiorca, per un’invincibile coazione, sono andata a messa come fosse un consueto prefestivo vercellese … Sant’Eulalia come Sant’Agnese o San Paolo, Santa Maria Maggiore.

E il prete officiante, ovviamente in lingua spagnola, finiva col sembrarmi più vercellese dei nostri don Paolo o don Alberto e il suo castigliano o catalano si colorava di inflessioni vernacole e quelle donnine in abiti dimessi, dal taglio approssimativo, le fogge goffe (‘cutìn’, camisìni’?), gli sbuffi improbabili all’attaccatura delle maniche e ai polsini, le acconciature gonfiate e sbagliate erano diventate ‘doni d’Varsè’ tali e quali (lo stesso effetto mi avevano fatto le madame nelle chiese protestanti di Lubecca, addirittura i tratti albino-giallastri, di natura fiamminga, mi erano parsi altrettanto riconducibili a quelli di certe signore autoctone delle nostre contrade…).

Il fenomeno, oltre ad attestare – nelle particolari circostanze – l’universalità incontestabile e incontrastata del beghinaggio, mi provoca ogni volta sottili inquietudini, non liquidabili semplicemente con la considerazione rassegnata e smagata che “Tutto il mondo è paese”/ “Todo el mundo es paìs”, ovvero, a giudicare dalle vetrine di Chanel e Burberry in Passeig d’es Born- Palma come Londra o Parigi- “It is the same the whole world over”.

Allo stesso modo, anzi all’inverso modo, mi piace talvolta fare il giochetto ribaltato di voler vedere una città nota, mettiamo Torino, come avrei visto la prima volta una città ignota, mettiamo Helsinki, vederci aspetti inediti, fascinosi, stranianti, guardarla e riscoprirla come un altrove.

Il gioco sottile dei rimandi e dei confronti tra esperito e vagheggiato mi ritorna ondivago a ogni sortita, un calarsi ed estraniarsi oscillante ed estenuante, come quando le acque delle Baleari mi sembravano più limpide di quelle della Sardegna che non avevo ancora visto, mentre doppiavo un promontorio ricoperto di macchia mediterranea fin troppo uguale a quello sovrastante Celle Ligure, che ho fin troppo visto, così come il sentore d’Africa o magari caraibico che non ho mai percepito si mescolava in quelle terre ai fin troppo noti scenari di una costa-crosta come quella romagnola di hoteloni lunaparcheschi e felliniani…

A questo ho ripensato ripercorrendo le pagine di Augé in “Disneyland e altri non luoghi”, quando, nella premessa, invita a riscoprire il viaggio come esperienza di conoscenza, come ‘scoperta’, e a non accontentarsi di un vieto turismo, a non sottostare alle leggi pervertite che riducono il mondo a prodotto da consumare scontato e dozzinale; a intraprendere un viaggio vero nel vicino, piuttosto che cercare lontano un esotismo di maniera che rischia di essere quanto mai prevedibile, precotto.

Su questo oscuramente e ancora confusamente ragionavo durante le mie ultime vacanze in terra croata, sbarcata a Primošten/Capocesto in un complesso-concetto, hotel, ospizio, sanatorio, scoglio e spiaggia, pineta e terrazza, mare e piscina. Un’offerta di natura intatta, incontaminata, magari selvaggia, addomesticata e praticabile, il solito paradosso delle proposte di ‘altrove’ delle agenzie di viaggio: provocare il brivido dell’ignoto e impervio per renderlo poi fin troppo noto e pervio, comodo, scontato…promettere l’inusitato e imprevedibile ma garantirne prevedibilità e consuetudine…

Lascia un commento