Come e perché si creano i nonluoghi

Arriva uno e dice: – Bisogna coltivare le banane! E allora banane, banane, banane, solo banane per chilometri e chilometri. Però servono braccia, serve gente, serve una città con le banche, i bordelli e gli studi legali. Allora trapiantano le banane e le persone, si crea un nonluogo (alle volte è riso invece che banane). Poi, dopo un po’, finisce la pacchia, i frutti (il riso) non bastano più. Allora si ripianteranno gli alberi lungo i canali, le piste ciclabili si snoderanno sul tracciato dell’antica pedemontana. Forse la città saprà reinventarsi.

Arriva un altro e dice:- Il centro storico è mefitico, insalubre, stretto, costruiamo un nuovo quartiere! Allora ecco Via delle Viole, Giacinti, Rododendri… a botte di interi phyla botanici. Poi, dopo un po’, cresce l’edera sul monumento ai caduti, arrivano i magrebini ad arrostire le merguez… diventa un nuovo luogo per altre persone.

Arriva uno e dice:- Bisogna vendere, qui costruiamo un outlet! Così, vicino allo svincolo autostradale, nasce un nonluogo. Allora si svuota la città, i piccioni cagano sui monumenti, nelle piazze vuote, il sabato, mentre tutti transumano nel nonluogo fresco- condizionato, comodo, dotato di parcheggio. Poi, dopo un po’, nelle città ormai deserte, ritornano come sopravvissuti i bambini a giocare e ridiventa luogo.

Arriva un altro e dice:- Serve dell’argento, conquistami un continente! Parte l’altro con le caravelle, trova il continente. Ammazzano tutti e prendono a costruire strade larghe, fontane nel deserto, grattacieli sugli scogli. Ormai sono abituati così, ogni tanto si esaurisce una miniera o un pozzo o una bolla finanziaria. Allora transumano, altro deserto, altri scogli.

Ci sono solo nonluoghi nel mondo nuovo ? O è un nonluogo comune ?

2 thoughts on “Come e perché si creano i nonluoghi

  1. Mi viene da pensare alle persone che popolano i nonluoghi.
    In alcuni casi sono mossi da necessità di base: se non vado a lavorare nella monocultura muoio di fame. Magari non hanno neanche le parole per poter immaginare qualcosa di diverso.
    In altri casi è la ricerca di qualcosa di noto e ripetibile, che magari ci salva dall’ansia del diverso da noi e qui mi vengono in mente i turisti stranieri che vanno al mcdonald in cui trovano lo stesso panino da Ottawa a Dubai. Oppure gli italiani che vanno in Kenia nei villaggi a mangiare spaghetti e cotolette, ben recintati col filo spinato, tornano e dicono “Uè, sono stato in Africa!”.
    Poi c’è il tasto dolente dei centri commerciali/ipermercati. George Ritzer li definisce “nuove cattedrali” (La religione dei consumi, 2000, ed il Mulino).
    Lo confesso, ci vado, con una lista a cui mi attengo, ma ci vado. Ed ogni volta mi perdo ad osservare chi ci va, cosa comprano, con chi ci vanno.
    Guardare dentro i carrelli o meglio ancora sedersi su una panchina e guardare, ascoltare, perfino annusare.
    Una volta, in fila alla cassa di un bar, ho sentito una telefonata “… sono all’ikea. Tanto qualcosa da comprare lo trovo sempre…”
    Sembra un’esperienza mistica, tutti intruppati a far parte di un unico essere, “un sol corpo, un sol spirito, una sola fede ci accomunerà” come cantano i carismatici cattolici.
    Ma quello che forse mi colpisce di più sono le case, i palazzoni stile Europa dell’est venduti come edilizia residenziale. A Torino hanno demolito vecchie fabbriche in disuso ed al loro posto hanno innalzato condomini assurdi, almeno per me. Un appartamento nuovo in un alveare costa come uno vecchiotto in una zona più vivibile o come una casetta fuori città. Cosa spinge la singola persona (non la gggente) a considerare desiderabile incatenarsi con un mutuo trentennale ad un appartamento del genere? Fuori i pochi negozi sono appannaggio degli indigeni delle vecchie case dall’altro lato della strada, i nuovi salgono in auto e vanno in uno dei due ipermercati appositamente costruiti lì accanto, parcheggiano, comprano ciò che pensano li renderà felici, ritornano a casa senza aver messo un piede sul marciapiede. Non è Los Angeles, è via Cigna a Torino.

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