Il testo in inglese di James Boyle, “The Public Domain – Enclosing the Commons of the Mind” seguendo lo spirito del tempo, è liberamente scaricabile dal sito dell’autore oppure se preferite i libri di carta potete comprarlo per i tipi di Yale University Press.
L’autore è per formazione un giurista e si occupa di diritto d’autore presso un’università americana che ha un centro studi sull’argomento. Giusto per inquadrare un pochino, va detto che per le sue posizioni e le sue collaborazioni egli è schierato con una certa fazione (dalla parte di Google e dei new players) nella diatriba sulla net neutrality e i diritti d’autore che infuoca negli Stati Uniti.
Il testo è molto istruttivo, come profano (per non dire ignorante) sull’argomento ho apprezzato la panoramica che offre sulla storia e le origini del diritto d’autore, peraltro molto diverse nei paesi di lingua e cultura giuridica anglosassone e nei paesi dell’Europa continentale. Nel primi si parla di copyright (= diritto di copia) e si parte da una visione utilitaristica che sacrifica una parte del libero mercato erigendo un monopolio di durata limitata per l’autore. Nei secondi si parla di droit d’auteur e si parte dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo, quindi è un concetto più focalizzato sull’autore che sull’utile della società.
Quindi già traducendo copyright con diritto d’autore facciamo una violenza, come se io dico castoro e tu traduci pelliccia, io dico anatroccolo e tu dici anatra all’arancia.
Poi le due culture si sono incontrate e ci si è più o meno accordati, per far funzionare il business. Di fatto il diritto d’autore come lo conosciamo vige da duecento anni circa, ma si è andato sempre più rafforzando.
Sessanta anni fa violare il diritto d’autore era difficile per il consumatore (ci si doveva procurare un’eliocopiatrice, o un registratore a nastro Geloso…) mentre poteva farlo seriamente un tipografo o un produttore di dischi concorrente. Il diritto d’autore era un un insieme di regole che vincolava gli editori ed i distributori. Ma lo sviluppo tecnologico dell’informatica ha reso facilissimo copiare ed insignificante o nullo il costo dell’operazione. Queste leggi astruse e complicate adesso ci riguardano tutti direttamente. Mentre l’industria che ha paura di cambiare modello di business ed ha la possibilità di fare lobbying pesante ha pilotato l’evoluzione della legislazione nella direzione restrittiva.
La creazione artistica (musicale, letteraria) si è sempre basata su un patrimonio comune (le melodie popolari, la musica religiosa, i jazz standards, l’epica, i classici…) da cui ogni artista attingeva: il confine tra plagio e contaminazione è difficile da definire. Questo patrimonio comune, il pubblico dominio, è ora minacciato dalla legislazione restrittiva sul diritto d’autore.
Boyle invoca la nascita di un movimento simile all’ambientalismo per difendere quel bene comune che è il pubblico dominio. Paragona quello che sta succedendo al pubblico dominio della conoscenza alla recinzione (enclosure) dei campi inglesi di qualche secolo fa. Sui libri di storia troviamo scritto che quell’atto che segnò la fine di un modello “comunista” (le partecipanze) diede l’impulso all’accumulo di ricchezza che fece più tardi entrare l’isola nella rivoluzione industriale.
Ma Boyle dice che l’analogia non tiene: la conoscenza non è un bene esclusivo e rivale (se ben traduco i termini tecnici economici inglesi “rivalrous” ed “excludable”). Se io mi faccio una copia della tua registrazione del concerto questo non va a detrimento della tua facoltà di ascoltare la tua copia.
È pericoloso usare metafore ed analogie legate al mondo fisico parlando di conoscenza ed idee. Il pensiero è immateriale quindi la copia non è necessariamente un furto come vogliono farci credere certi spot pubblicitari che ci obbligano a vedere al cinema.
Secondo Boyle nella situazione attuale sono aumentati i rischi di proliferazione delle copie illegali, ma di pari passo sono crollati i costi di distribuzione e di promozione delle opere d’ingegno, e il pubblico potenziale è molto maggiore di un tempo. Per cui ci dovrebbe essere un altro modo per tutelare i diritti degli autori senza depredare il patrimonio comune (“common“).
In conclusione il testo offre tre tesi per risolvere questi problemi:
- propone una limitazione della durata dei diritti d’autore, invertendo il trend all’allungamento che è stato seguito fino ad ora
- difende le eccezioni al divieto di copiare, il fair use che permette la copia ad uso personale
- sostiene le licenze creative commons (usate anche su questo sito) che sono un modo furbo per far cortocircuitare su se stesso il concetto di copyright.