Quale fenomeno di massa più di massa che il cinema? Rito della modernità, collettivo e planetario, dagli esiti spesso confinanti, anzi, sconfinanti nell’isterismo.
Da “Ben-Hur” ad “Avatar”: penso alle sale gremite giorni e giorni per l'(in)evento spettacolare e tridimensionale di quest’ultima proposta dell’industria e della tecnologia cinematografiche: affluenza mass… iccia, esagerata, sovraesposizione, saturazione mediatica… inversamente proporzionali al valore, alla carica emozionale, alla consistenza del prodotto, un nulla noioso, risibile, tanto visivamente ingombrante, incombente, quanto inutile, futile, inconsistente, fastidioso perfino, in definitiva effimero.
Sono molteplici i casi in cui si conferma il sospetto che, entro la fenomenologia dell’approccio e della fruizione culturale e artistica, valga il principio secondo cui meno un prodotto è proposto, imposto, sostenuto, meno la fruizione è incanalata, massiccia, massificata, maggiore sia il suo peso specifico e la sua incidenza, maggiori le probabilità che arrivi, colpisca, se non tutti chi è disposto ad esserlo, chi sa o vuole o ci si trova a raccoglierlo, e dunque lasci davvero il segno, e un segno importante, che ‘segna’ davvero…
Lo ho pensato una volta di più capitando al cinema per forza di ordinaria disperazione, senz’altro non di promozione pubblicitaria – non sapevo che fare, non volevo andare a dormire, ero sola, come al solito, e inquieta – una sera, di inizio estate, un anno fa ormai…
Credo mi avesse attizzato il titolo, “Il tempo che ci rimane”, una volta tanto fedele all’originale “The time that remains”… sono sensibile all’argomento, l’ho già scritto e ammesso… la visione ha poi felicemente disatteso le aspettative, l’odiamato tema dell’età che incalza e avanza c’entrava poco o nulla.
La sala del cinema cittadino era quasi vuota, scontata situazione da cinemincentro a metà settimana… e magari pure a fine settimana… di questi tempi, non c’è storia… se non producono un qualche altro “Avatar”… ma allora tutti alla multisala…il cinemincentro resta comunque a languire disertato.
Io ero la quarta spettatrice, già, solo donne – dopo di me non è più entrato nessuno – magari donne disperate come me… altro inquietante, per lo meno triste, consentitemelo, segno dei tempi: una davanti, due amiche al centro, io mi son seduta dietro, in linea con la solitaria ‘avanguardista’, per amor di disposizione…
Ce lo siamo visto senza sottotitoli, il parlato era in arabo, credo, il regista è il palestinese Elia Suleiman, qualcosa doveva essere in inglese, insomma non capivo una parola…
Non posso dire per le altre tre spettatrici, per quanto mi riguarda mai film mi ha preso, coinvolto, affascinato come questo…la narrazione surreale della vicenda di una famiglia palestinese dall’epoca della fondazione di Israele, la storia personale di Suleiman, mi son poi documentata, ha tratto vigore dal gap linguistico…ne ha esaltato la bellezza, la suggestione,la provocazione delle immagini, il ritmo dadaista… l’umorismo sofisticato che rappresenta e denuncia nel miglior modo l’assurdità della condizione umana, nella fattispecie di quella drammatica condizione.
Non dimenticherò mai gli orti di quella Palestina, gli ulivi, gli interni di quelle case… com’è rigogliosa quella terra, io la pensavo un deserto, com’è elegante, com’è vicina al meglio della nostra terra, almeno di quel che ancora abbiamo nel cuore, nella memoria, di quel poco che è rimasto, che non è ancora stato intaccato dalla volgarità e ricchezza dilaganti…
Di quel mondo avevo solo, nella mente, prima, le immagini squallide, scontate, di aridità e devastazione, dei reportage di guerra…
Qualcosa di analogo deve essere accaduto a Francesco Cataluccio, quando si è trovato ” Al pomeriggio di una giornata di copiosa neve (…) davanti al Kino Moskwa, uno dei più grandi (aveva la forma di una tenda mongola), e, a causa del nome e della poco indipendente programmazione, meno frequentati cinema di Varsavia. (…)”
Ci era arrivato in compagnia di Paulina, una ragazza polacca, trascinata con la promessa di una cena al ristorante, dopo che vari amici avevano declinato l’invito a vedere un film russo, scandalizzati da una proposta così poco politicamente corretta.
“Vieni e vedi”, appunto, il titolo del film del regista bielorusso Elem Klimov, dice Cataluccio: “Una delle pellicole più sconvolgenti che mai abbia visto.”
E che avrebbe potuto non veder mai: la sala di proiezione era vuota, in prima fila soltanto un ubriaco, l’inizio della proiezione tardava finché una signora grassottella in stivali militareschi annunciò che non si poteva proiettare per regolamento un film se non c’erano almeno dieci spettatori paganti; il nostro dovette acquistare altri otto biglietti (l’ubriaco doveva essere uno scroccone) da una sorridente cassiera perché lo spettacolo potesse iniziare.
Il film trae spunto da uno dei tanti episodi della pacificazione tedesca che nel 1943 portò in Bielorussia alla distruzione di centinaia di villaggi e al massacro di migliaia di persone e racconta del giovane contadino Flera, arruolato a forza dai partigiani, che torna con una compagna d’armi al villaggio da dove era stato rapito e lo trova stranamente deserto…negli orti dietro le case sono ammucchiati i cadaveri…
Inizia di lì un viaggio che è una discesa agli inferi tra le atrocità assurde della guerra, una guerra che non si vede mai ma che si legge nel volto del ragazzo trasformato in una maschera raggrinzita dall’orrore, in scene visionarie e apocalittiche di violenza fine a se stessa.
E’ questo uno dei tanti episodi narrati in “Vado a vedere se di là è meglio” (Sellerio), un vagabondaggio nella Mitteleuropa in cui si mescolano geografie letterarie, architetture, memorie biografiche e aneddotica, un viaggio nello spazio e nella mente… non certo turismo di massa, quello di Cataluccio, e non certo letteratura di larga diffusione la sua, io mi ci sono imbattuta per caso, avventura, destino… non certo guidata da battage pubblicitario… ulteriore conferma di quanto illuminanti e importanti possano essere certe esperienze solipsistiche ed eccentriche, fuori dai canali e dalle condotte forzate.
In nome del “mainstream” (ciò che piace a tutti in tutto il mondo, o almeno in una larga parte di esso), le piccole cinematografie locali vanno scomparendo, travolte dai grandi centri di produzione: Hollywood, Bollywood, Nollywood, Il Cairo, Rio, Mexixo City.
Già, Nollywood: la Hollywood della Nigeria.
Fino ad ora le produzioni nollywoodiane hanno avuto poca distribuzione al di fuori di questo grande paese: erano a noi quasi inaccessibili.
Oggi invece alcuni di questi film sono oggi disponibili quando lo vogliamo dal nostro salotto, gratuitamente e legalmente in streaming, sponsorizzati dalla pubblicità.
Sono produzioni con dei budget molto bassi, un decimo o un centesimo di un film fatto in Nordamerica o in Europa. Nonostante ciò pare rischino di andare in bancarotta a causa dell’intensivo pirataggio. Chissà se saranno i nuovi canali di distribuzione digitali a tenere in piedi Nollywood.
Resta il fatto che se anche questa roba è mainstream in Nigeria, qui da noi è inguardabile: in confronto vacanze di natale è un film d’essai !
Non so dire se la visione di “Black Berry Babes” o di “Living in Bondage” possa essere un’esperienza illuminante e importante per qualcuno, ma almeno grazie a youtube potete provare !