Subcultura Debian

Chi è questo personaggio con il kilt scozzese e cosa ci fa sul palcoscenico di una specie di teatro a Bagnaluca (Bosnia Erzegovina) ?

Un attimo, quanta fretta, ci arriviamo per gradi.

Prima di tutto, se il pensiero è software, anche il software è pensiero (pensiero umano codificato sottoforma di comandi per macchine disumane, che così diventano un po’ meno stupide). Se poi uno pensa all’importanza del libero pensiero, ne consegue che anche il software libero (free software) dev’essere importante.

Le cose qui si complicano per gli anglofoni perché in inglese la stessa parola: free può significare sia libero che gratis – il che ha portato a precisare: free software as in free speech (free come libertà di parola, corrisponde al nostro libero) oppure free software as in beer (free come quando qualcuno ti offre una birra, corrisponde al nostro gratis).

Ma torniamo al personaggio: è Stefano Zacchiroli, un italiano che da qualche tempo  rappresenta il Progetto Debian..

Debian per chi non lo sapesse è un sistema operativo basato su Linux (tra l’altro è anche quello che fa funzionare Calomelano), ma anche qualcosa di più: infatti il sistema operativo è il prodotto del Progetto Debian che è “una associazione di persone che ha come scopo comune la creazione di un sistema operativo libero”.

Il Progetto Debian è un gruppo di persone abbastanza esteso (migliaia di persone) che ha un’organizzazione democratica con tanto di una sua costituzione. Ad esempio quando c’è da votare ciascuno vota indicando un ordine di preferenza tra le scelte, un sistema di voto da certuni considerato il più equo. E quando hanno votato le ultime tre volte (marzo 2009, 2010, 2011)  per il Debian Project Leader, hanno eletto Zacchiroli (ma Debian non è una monarchia quindi non è il “capo”, ha più un ruolo rappresentativo e di coordinamento). Nella foto indossa il kilt perché dal 2007 c’è un tartan dedicato a Debian, e da allora c’è la tradizione di indossarlo in occasione della Debian Conference. E a Banja Luka per l’appunto c’è appena stata la Debian Conference 2011.

Debian è una società autonoma con folklore, regole ed eventi propri e definisce una subcultura specifica tra i tecnocrati che danno forma al paesaggio informatico (quel paesaggio informatico dove tutti noi poi dobbiamo trovare il nostro percorso come utenti, cercando se possibile di non sembrare troppo pecore al pascolo).

Questo paesaggio semplificando un po’ comprende quattro gruppi principali:

  1. Le corporations tradizionali, pre-internet (una su tutte Microsoft) che vivono con disagio il concetto di software libero;
  2. I radicali della prima ondata di entusiasti del software libero, tra cui si annoverano personaggi piuttosto ingestibili quali Richard Stallman e Linus Torvalds – caratterizzati dal personalismo e dalle posizioni ideologizzate;
  3. Le corporations post-internet (Google e Facebook sono rappresentative) che cavalcano l’onda della rete e sfruttano con il crowdsourcing e il Web 2.0 il contributo volontario degli utenti per fare business;
  4. Debian.

Dietro queste distinzioni culturali ci sono i vari business model, vari modi di gestire le organizzazioni e coordinare il lavoro di molti tecnici, e sullo sfondo la distinzione tra software libero e gratuito i cui sopra.

Debian si differenzia perché è più radicale nel non volersi mescolare con le corporations (come succede ad altri progetti di software libero come OpenOffice, Android, MySQl ….) e perché cerca di mediare con meccanismi democratici tra i personalismi degli hacker. Sì gli sviluppatori, questi tizi che nel luogo comune hanno barbe lunghe, non si lavano e bevono molta birra. In effetti sono spesso intrattabili, d’altronde chi volontariamente contribuisce con il proprio lavoro vuole essere l’autorità assoluta sul suo piccolo dominio, ma come gestire queste teste calde ? Anche perché lasciare mano libera totalmente ai tecnici rischia di portare il prodotto molto lontano dagli utenti.

Una soluzione praticata da tempo sono le organizzazioni gerarchiche tradizionali, dove i tecnici vengono assunti dopo opportuni test psicologici per escludere i casi borderline, quindi passano attraverso un periodo di gavetta tra i 20 e i 30 anni per calmare i bollori (vengono praticamente domati come i cavalli). Se sopravvivono a questo trattamento, da lì in avanti si riesce a fargli fare quello si vuole tuttosommato con pochi soldi, basta qualche gratificazione risibile (targhette, pacche sulle spalle e premi simbolici).

Dentro i progetti di software libero entrano invece anche gli elementi borderline (anzi in certi casi sembra quasi che siano indispensabili). E nella costituzione Debian la parola sviluppatore si scrive con la lettera maiuscola:

Un singolo Sviluppatore può
1. prendere ogni decisione tecnica o non tecnica riguardante il proprio lavoro;
2. proporre o sostenere bozze di Risoluzioni Generali;
3. proporre sé stesso come candidato durante le elezioni del Leader del Progetto;
4. votare per Risoluzioni Generali e per l'elezione del Leader.

Secondo alcuni nella comunità Debian se sono molto codificati i rapporti con l’esterno, manca un codice di condotta interno e si finisce per dar troppo peso ai temi e alle diatribe di pochi, che col loro schiamazzo coprono la maggioranza silenziosa che partecipa meno ai dibattiti (nella società reale questi pochi sono quelli che vanno al grande fratello o in parlamento).

Ciò non ostante Debian è una bella cosa: il prodotto è eccellente, le persone sono meravigliose e poi ci fa piacere sapere che il progetto lo guida un italiano, anche se vive e lavora all’estero: in un’università francese ! Chi volesse guardare da vicino questi eroi all’opera può guardarsi qui i video dalla Debian Conference della scorsa settimana.

1 thought on “Subcultura Debian

  1. A corredo del post, suggerisco la lettura del saggio antropologico di Marco Aime e Anna Cossetta: “Il dono al tempo di Internet”, Einaudi 2010. Riprendendo i temi del classico “Saggio sul dono” di Marcel Mauss, li aggiorna alle realtà di free software, open source, file sharing, internet community. A titolo esemplificativo, ecco una delle conclusioni dell’indagine:
    “[…] se l’atto del donare mantiene una sua valenza intrinseca, l’aspetto sociale del dono viene a sfumarsi, in quanto manca la tensione della perdita, che crea quel vuoto in cui, se il ricevente contraccambia perdendo anch’egli qualcosa, si inserisce il rapporto, durevole nel tempo, tra donatore e ricevente”.
    Sperando che il solito Luca Sofri non pretenda di bocciare questa analisi, perchè magari l’antropologo Aime (autore tra l’altro di un noto saggio/diario sui Dogon del Mali) non ha partecipato alle tante discussioni in rete o non è in grado di configurare Mozilla.

Lascia un commento