Uno studio di Oxford Economics, “Aviation: the Real World Wide Web” , tratta, tra gli altri, il tema dei “food miles”. Per completezza di cronaca, si tratta di uno studio commissionato da British Airways, Airbus ed easyJet, volto a mettere in luce le ricadute positive, sociali ed economiche, del traffico aereo. Ciononostante, la trattazione (“What price fresh produce?, pag. 81 e segg.) è rigorosa e documentata e può sollevare domande e generare dubbi.
Il “case study” considerato riguarda l’esportazione di frutta e verdura fresca da alcuni paesi africani (Ghana, Sud Africa, Egitto, Burkina Faso e soprattutto Kenia) verso il Nord Europa, ed è volto a proiettare qualche ombra sul paradigma, ecologicamente corretto, del cibo a Km. zero. In sostanza, gli argomenti utilizzati sono due: il primo di tipo tecnico, il secondo di tipo umanitario. Tecnicamente, l’impatto ecologico (l’emissione di gas serra) del cibo che mangiamo andrebbe misurato sull’intero ciclo di vita del prodotto, e non soltanto sulla fase di distribuzione: la produzione di pomodori o fagiolini in Kenia, che ha una terra fertile, un clima favorevole e mano d’opera a buon mercato, avrebbe, nonostante il trasporto aereo, impatti minori dello stesso cibo prodotto in Europa, in serra, con l’uso di fertilizzanti e macchine agricole. L’argomento umanitario sottolinea come tale produzione abbia procurato un certo benessere a piccoli e grandi contadini africani, e che la diminuzione degli acquisti in Europa, per ragioni ecologiche, getterebbe nuovamente tali persone nella povertà.
Manco a dirlo, servirebbero approfondimenti in molte direzioni: ad esempio, sul controllo della filiera, che a queste distanze è problematico, sui produttori di agricoltura biologica in Italia e in Europa; sul ruolo degli esportatori africani e della grande distribuzione in Europa, sulla formazione del prezzo, e via discorrendo. Mi pare però che il tema solleciti alcune riflessioni, soprattutto dopo che sono stato resi noti urbi et orbi i metodi di raccolta di frutta e verdura nel Sud dell’Italia.
In poche parole: meglio i pomodori del Kenia (ammesso che qualche catena di supermercati voglia distribuirli) oppure quelli della Campania ? Meglio le arance della Calabria oppure gli ananas del Ghana ? Che ruolo potranno avere quei paesi nella distribuzione internazionale del lavoro e delle risorse ? All’Africa resteranno solo guerre civili e malattie, oppure dovrà rassegnarsi a diventare una colonia cinese ?
In somma: sono meglio le arance italiane o quelle sudafricane visto che tanto a raccoglierle son sempre gli stessi ?
Questo è proprio il nocciolo del problema della globalizzazione. La globalizzazione applicata al cibo è ancora più delicata, ci sono gli aspetti sanitari, il fatto che ad esempio il riso in certi paesi caldi rende quasi il doppio per ettaro che da noi; lo sviluppo agrario, tecnico e sociale dei paesi del terzo mondo; l’agricoltura sostenibile (per non rifare gli errori fatti in USA e un pò anche qui con l’agricoltura intensiva); i diritti dei lavoratori (!).
E’ indubbio che va preso in considerazione il ciclo intero di vita degli alimenti, e ben vengano gli studi, c’è appunto una metodologia scientifica per fare queste cose che si chiama LCA (Life Cycle Assessment).
Però gli studi bisogna vedere chi li paga, che i ricercatori non sono mica dei santi, anche loro hanno dei figli, devono pagare l’apparecchio dentale dei figli, la messimpiega della moglie, il mutuo della casa…
Una cosa è certa: a fare l’LCA del trasporto aereo degli ananas per British Airways ad esempio si guadagna bene, meglio sicuramente che a raccogliere gli ananas, meglio anche che a fare uno studio LCA della filiera corta per coldiretti.
Di chi fidarsi ? Ecco a voi il criterio di scientificità per il III millennio: lo studio è valido se è commissionato da degli sfigati e pagato poco, ammesso che i tecnici arrivino vivi alla fine (e non muoiono di fame a loro volta).
Infatti se ti pagano poco, non ti vien voglia di comprometterti; ecco perchè le retribuzioni dei ricercatori in Italia sono basse ! per mantenerli puri incorrotti ! siamo troppo avanti !
Un esempio: una delle poche aziende che fa i soldi con l’LCA e lavora per tutti i grossi clienti industriali non ha una sola pubblicazione scientifica, nulla; non han tempo forse, forse fanno solo marchette, una dopo l’altra, oppure non sarebbe benvisto dalle aziende per la riservatezza… chissà.
Il cuore del problema però non sono gli aspetti tecnici e neanche quelli scientifici. La vera domanda è: chi sono i veri sfruttatori dei braccianti di colore ? i caporali calabresi … la GDO oppure gli euorburocrati che hanno messo in piedi la PAC ?
Disclaimer: questo commento non sarebbe stato possibile senza l’accesso ad informazioni specifiche fornite da un insider nel sistema ricerca italiano che si è dimenticato di dirmi se vuole restare anonimo.
Le colpe della Grande Distribuzione sono ormai proverbiali, se è vero che addirittura un alto esponente della ristorazione industriale (l’AD di McDonald’s Italia, Roberto Masi), così si difende dall’accusa di sottopagare contadini e artigiani, rivoltagli da Carlo Petrini:
“…mi permetto di evidenziarle le grandi differenze che esistono tra le logiche di prezzo che la fanno da padrone nella grande distribuzione e le logiche della ristorazione, che invece devono lavorare sulla qualità e sicurezza del prodotto offerto”.
Se non siamo al bue che dà del cornuto all’asino, poco ci manca.
Sarebbe opportuna una riflessione sul potere che gli uffici acquisti delle grandi aziende (pubblici e privati, di qualunque settore) stanno assumendo e sui danni che le politiche indiscriminate di abbattimento dei costi stanno causando sul mercato.