Rosa, la Rosa di Olindo, accusata con il compagno della strage di Erba, era — raccontano le cronache – una massaia provetta e perfezionista, puliva e ordinava casa maniacalmente.
Una sera a cena con amici, constatando con un po’ di imbarazzo il disordine, il nero alle piastrelle, il mobilio impolverato di casa mia, mi sono difesa con la considerazione che una casalinga sciatta come me difficilmente avrebbe rischiato di compiere un atto efferato come quello attribuito alla micidiale coppia di Erba.
E’ anche vero che con l’ordine e ancor più il riordino, per educazione se non proprio per indole, in quanto femminuccia, ho sempre fatto e disfatto i conti, conti che non sono mai tornati…
Come è vero che, ciclicamente, mi faccio prendere dalla foia di ordinamento e sistemazione di cose, oggetti, con furori archivistici che sfociano nell’ossessione.
Mettere a posto, collocare, catalogare, ordinare, sistemare la cameretta, gli oggetti, i libri, i vestiti, le scarpe, le fotografie è stato un leit motiv della mia esistenza.
Con oscillazioni e cedimenti clamorosi: la mia dimora appare a fasi un caos, un magma inabitabile, un archivio iperordinato e asettico, un museo, un bacheca…
Casa-museo o casa-discarica, le due facce polarizzate del mio nevrotico vivere e abitare.
A pensarci bene, ad ogni cosmo o microcosmo corrisponde un caos come rovescio della medaglia: i retrobottega di negozi e locali tirati a lucido con i rifiuti accumulati, le scorte accatastate, gli oggetti di servizio acciaffati, gli scantinati dei musei con le opere in attesa di catalogazione che si accumulano inesorabilmente fino a perdersi, fondersi nell’indistinto… le cantine delle residenze, i solai, gli sgabuzzini, i disimpegni… regni dell’accatastamento, dell’accumulo e del cumulo…
Tragicamente velleitario quanto necessario sembrerebbe ordinare e riordinare la nostra vita, il nostro mondo, trovare il principio ordinatore soprattutto…così presente, instante e così sfuggente, inafferrabile, inarrivabile.
Principio ordinatore che comporta un criterio di inclusione e insieme implica, in un tragico paradosso, l’esclusione più radicale, spietata a volte.
Probabilmente Rosa, nel suo micromondo – a suo modo perfetto – di ordine e pulizia e nitore doveva scacciare tutti i possibili intrusi o potenziali corruttori, sporcizia, germi, elementi allotri, anche gli umani, nella sua logica folle e subumana, se non corrispondevano al suo principio ordinatore, minimo e dimensionato quant’altri mai ma ferreo, imperioso.
Invece la casa avita di “Homer & Langley” nella ricostruzione della storia vera (accaduta a New York ai primi del Novecento) che ne fa E. L. Doctorow si trasforma progressivamente, a furia di inglobare, contenere, includere, da magione elegante e accogliente di una famiglia dell’alta borghesia primonovecentesca, in un ricetto di detriti del vivere, cose, oggetti, strumenti, libri e giornali, fino ad un’ implosione che travolge i due fratelli autosegregatisi in essa e li risucchia nel caos , il buio, la morte.
Mi è parso di ravvisare suggestioni bibliche, sotto il segno del ribaltamento, nelle pagine iniziali della storia: una sorta di anti-Genesi sembra presiedere alla narrazione: come la Genesi, attraverso l’avanzare della luce che scaccia le tenebre e dà i contorni al mondo ( inserendo così un principio ordinatore, gli elementi separati dai contorni, collocati al posto giusto, nella loro funzione e ragion d’essere, i cieli, le acque, i monti, i fiumi, tutta la molteplicità distinta dell’essere), narra della trasformazione del caos primigenio in cosmo ordinato, così l’avanzare ineluttabile della cecità di Homer, uno dei due fratelli e io narrante, cantore di una moderna epica rovesciata, segna il passaggio dalle forme all’informe, con la perdita dei contorni della realtà, sostituiti da ombre e poi dal buio: dall’ordine formato all’agglomerato caotico che fagociterà i due eccentrici rampolli della stirpe.
Perché Langley, il fratello iperattivo reduce dalla Grande Guerra, che lo ha devastato nel corpo e nello spirito, accumula cose di ogni sorta, nella casa dei suoi genitori, assecondato da un fratello sodale e affettuosamente connivente?
Per conservare, mantenere, ordinare, catalogare… ma il progetto o l’intento sfugge presto al suo controllo, la casa, prima contenitore ordinato di un’esistenza equilibrata e conforme, diventa ipertrofico scaffale essa stessa, i piani si fanno ripiani di un deposito-accumulo continuo, inesorabile, cataste, pile di mobili, oggetti, giornali, fino al tragico epilogo.
Così come mai realizzato – e irrealizzabile – si rivela il progetto di creare, attraverso un’attenta raccolta e catalogazione di articoli di testate giornalistiche, il giornale eternamente attuale, “… un numero unico ed eterno che andasse bene per qualsiasi giorno (…) un progetto che andò avanti fino al termine della sua vita, quando le balle dei giornali e le scatole dei ritagli occupavano ogni stanza della nostra casa…” .
Anch’io colleziono articoli di giornale con la stessa foia ossessivo-compulsiva, l’alibi che mi do è che mi appresto una documentazione sul mondo utile al mio lavoro di insegnante…anch’io impazzisco nel catalogare, pretendere di ordinare, archiviare, secondo categorie che si moltiplicano e che sposto, riformulo, aggiusto continuamente e tutto puntualmente sfugge al controllo, si accumula e perde…
E, in virtù del mio mestiere, in questo vuoto pneumatico quasi eterno che sono le vacanze estive degli insegnanti, ho del buon tempo da dedicare alle ossessioni, crogiolandomi in oziose(?) riflessioni… dibattendomi in disperate ricerche di senso, provando a far (dis)ordine nella mia esistenza.
Comunque sia il libro di Doctorow merita di esser letto, credo, ben al di là di quel che io ci ho visto e creduto di vedere… ha una grande forza di pensiero e narrazione.
Metafora della storia universale, che oppone all’energia creatrice iniziale (di galassie, stelle, pianeti, vita) l’aumento implacabile dell’entropia, che, curiosamente, creando disordine, genera morte. Fino al probabile rovesciamento del big crunch, e alla sperabile rinascita di un nuovo universo.
Come avveniva sino alla fine del XVI secolo (M. Foucault, Le parole e le cose), microcosmo e macrocosmo si corrispondono per analogia. I nostri affanni creatori o distruttori riflettono la storia dell’universo; oppure non sappiamo immaginare altro e la plasmiamo secondo le nostre pene terrene.