-In genere non si dice “vado in Lombardia”, mentre si usa “andare in Toscana” (o in Liguria, o in Puglia). Infatti la regione lombarda non suggerisce un’immagine unitaria, se non polarizzata sulla centralità geografica, economica e culturale di Milano.-
Così inizia il volume sulla Lombardia delle guide rosse del Touring.
Posso aggiungere, per esperienza personale, che anche i lombardi raramente si definiscono tali, in contesti nazionali o internazionali: semmai si qualificano per appartenenze provinciali o di aree circoscritte, in quanto varesotti, laghée, valtellinesi, cremaschi, brianzoli e via elencando.
Chiunque abbia frequentato le patrie scuole primarie sa che Lombardia deriva dal nome “Longobardi” (gente dalla lunga barba), popolo di origine germanica che instaurò un vasto regno in Italia, principalmente settentrionale, tra il VI e l’VIII secolo d.C. Le successive vicissitudini storiche che portarono al frazionamento del territorio italico, lasciarono in eredità al termine “lombardo” il significato generico di italiano settentrionale; nel Medioevo “viene sintetizzato addirittura un tipo di banchiere italiano, il lombardo, di cui ancora oggi troviamo tracce a Parigi, in Rue des Lombards, e nella city londinese, con Lombard street, che ricordano i luoghi dove sorgevano le banche lombarde. In alcune lingue europee il termine è passato a indicare i monti di pietà, e per estensione i prestiti su pegno: accade ad esempio nel ceco e nello slovacco (lombard) e nel danese (lombardlan); ad Amburgo troviamo Lombardsbruecke, ponte che prende il nome dal fatto di essere stato costruito accanto a un monte dei pegni” (Alessandro Masi, Quaderni speciali di Limes: “Lingua è potere”).
Nel tardo rinascimento si cristallizza un territorio che potrebbe definirsi come antenato dell’attuale Lombardia: è il ducato di Milano, che dopo la pace di Cateau-Cambrésis (1559) assume dimensioni non dissimili da quelle odierne, ma con i confini, definiti approssimativamente dal Sesia e dall’Adda, spostati verso occidente. Rispetto alla configurazione attuale, ne facevano parte Novara, Alessandria e parte del Canton Ticino, mentre ne erano escluse Sondrio, Mantova, Crema, Bergamo e Brescia.
Il ducato continua la sua storia, con diversi spostamenti territoriali, dapprima come entità indipendente, poi sotto il dominio spagnolo e austriaco. Proprio gli austriaci, dopo il periodo napoleonico, riesumano il termine “Lombardia”: Giorgio Rumi (La formazione della Lombardia contemporanea, Laterza 1998) dimostra però che si trattò in realtà di un progetto geopolitico dell’Impero asburgico. “Quando ripresero possesso dei loro territori italiani, dopo la sconfitta di Napoleone, gli austriaci decisero di creare una solida testa di ponte, fra il Ticino, il Po e il Mincio, una sorta di ridotto prealpino che impedisse i fatali avvenimenti degli anni rivoluzionari. Per raggiungere lo scopo riunirono tutte quelle aree che i Visconti, gli Sforza, i sovrani francesi, spagnoli e la stessa Maria Teresa non avevano saputo tenere stretti a Milano: […] Sondrio, Chiavenna, Bergamo, Brescia, Crema e Mantova sono riportati nella sfera di attrazione della metropoli lombarda”.
Oggi le riottose province che hanno spesso mal sopportato la primazia di Milano (non si tratta di un caso isolato: si veda anche il dibattito sull’egemonia cagliaritana in Sardegna) stanno rovesciando le gerarchie, almeno a livello demografico ed economico. La deindustrializzazione e la “suburbanizzazione” hanno spostato aziende, ricchezze, traffico, infrastrutture, persone e voti dal centro alle periferie, trasferendo parte del potere economico e politico fuori Milano. Alla capitale sono rimaste le insegne del potere, gli edifici di rappresentanza, come il nuovo palazzo della regione (opera di Infrastrutture Lombarde, di area CL).
Non credo sia un caso che i personaggi che contano a livello politico ed economico in Lombardia (e non solo) provengano oggi dalle province lombarde o limitrofe: Formigoni e Castelli da Lecco; Maroni e Bossi da Varese; Calderoli da Bergamo; Tremonti da Sondrio; Cota da Novara; Berlusconi, milanese, trasferitosi ad Arcore; Bersani da Piacenza; Marcegaglia da Mantova.
Così come ogni settentrionale sarà “terrone” per qualcuno più a nord, ogni centro troverà la sua periferia: devoluti poteri e denari alle Regioni, saranno poi Province e Comuni a pretendere la loro quota di autonomia.
In fondo, come profetizzava già anni fa Sergio Romano, parlando dei due ostacoli che il federalismo italiano troverà sulla sua strada: “Il primo è rappresentato dalle dimensioni e dai confini delle sue entità costitutive: non sempre i confini d’oggi sono storici e non sempre i confini storici sono logici e funzionali. Il secondo è rappresentato dai Comuni, sempre pronti a difendere, per quanto possibile, l’individualità. L’Italia non è mai stata nazionale e farà fatica a diventare federale. E’ stata e sarà sempre municipale.”