Febbraio 2021, reportage dal fronte della guerra alla mafia

L’appuntamento con il mio contatto tra gli insorgenti, che chiamerò Rosario, è in una delle tante sale Bingo di fronte al porto di Messina.

Da qui è ben visibile l’agghiacciante cantiere mai portato a termine del ponte sullo stretto, e il quartier generale della missione internazionale di pace SCFOR (Sicily Calabria Forces) di Reggio di Calabria. È da lì che si levano in volo ininterrottamente i droni (anche noti con l’acronimo inglese UAV cioè Unmanned Aerial Vehicle ovvero aeromobili a pilotaggio remoto) che partono in missioni di sorveglianza, spionaggio o le letali azioni di uccisione mirata dei capi mafia. Le vittime tra i civili negli scorsi cinque anni sono ormai migliaia, collateral damage (!) di una guerra non dichiarata che è sempre più paradossale.

Appena entriamo nella sala, frequentatissima dai militari ispano-americani e pakistani, Rosario sorride e abbraccia tutti gli addetti alla sicurezza e il gestore e si apparta con quest’ultimo tra l’indifferenza dei clienti. L’età media dei militari, con il diminuire della componente fisica del loro lavoro, si è alzata parecchio; questi brizzolati in mimetica continuano meccanicamente ad azionare le macchine con lo sguardo ipnotico dei consumatori di Zagarina, probabilmente lo stesso sguardo ipnotico che hanno una volta ripreso il loro posto all’interno della base, di fronte al joystick con cui comandano i droni. Quando torna Rosario è raggiante, e mi conduce al tavolo dove conosciamo Alfio, l’arzillo centenario di Gioia Tauro, ex capitano delle navi porta-container, che mi accompagnerà in Aspromonte. Con Alfio e Rosario, davanti a un piatto di pasta con le sarde innaffiato di vino bianco forte, per far arrivare la notte si chiacchiera di donne e dell’Operazione Husky, lo sbarco in Sicilia degli americani nel 1943: tutta un’altra storia.

I rifornimenti di Zagarina, la droga sintetica che impazza tra i veterani delle guerre d’Irak e d’Afghanistan, sono gestiti integralmente dalle ditte di spedizionieri internazionali che hanno anche il monopolio dei rifornimenti degli eserciti (in seguito ai tagli ai budget della difesa, la logistica è tutta in outsourcing). Dopo poche ore, all’aeroporto, assisterò all’atterraggio dell’enorme avio-trasporto Sukhoi della Cariddean Air. Nei container, mi sussurra Alfio, le munizioni caricate dalle basi NATO in Olanda sono convenientemente stipate di fianco agli scatoloni di Zagarina prodotta nei laboratori di Rotterdam. Il nostro viaggio inizia insieme al convoglio militare che deve trasportare i container nelle basi dislocate lungo le rovine di quella che fu l’autostrada A3. Il trasporto avanza nella notte stellata e profumata, con il ronzio di accompagnamento degli ortotteri senza pilota che ci guardano dall’alto con i loro occhi all’infrarosso.

Io e Alfio giochiamo a tressette nel blindato, e continuiamo a chiacchierare, avvicinandoci a giri concentrici al cuore del problema mentre il trasporto risale la strada verso l’interno che porta a Cittanova e poi a Zòmaro. Qui affidiamo i containers al magazzino della Cariddean, mentre Alfio mi strizza l’occhio, prima di ritornare verso il mare.

La mia principale curiosità è come si possa resistere per anni alla superpotenza tecnologica della macchina di guerra e di spionaggio che è stata messa in opera, e al tempo stesso rafforzare la posizione di leadership globale nel traffico di stupefacenti e di potere locale sul territorio. Alfio mi spiega che i picciotti non hanno smesso di usare i telefoni, e di camminare a testa alta in pubblico. Di fatto non ci sono segreti, tutte le persone avvedute sanno come funziona il business, che non è mai andato meglio. Si dice che il Generale Custer, non potrebbe chiamarsi altrimenti il viceré del nuovo regno delle Due Sicilie, non si trovi affatto male sull’isola. Secondo Alfio per i graduati questa guerra è una specie di viaggio premio, un modo per provare le armi più nuove a collezionare punti che poi potranno spendere in patria mettendosi sul mercato della politica o delle corporations. E per i governi è un modo di tenere lontano dalla madrepatria questa popolazione di cinquantenni eterni veterani che nessuno vuole vedere per le strade delle loro linde metropoli. “Non se ne andranno presto”, mi dice salutandomi prima che mi imbarchi sul volo che da Gioia Tauro mi porterà a Palermo all’alba.

All’indomani sono ancora rintronato quando il Generale Custer mi riceve nel suo quartier generale nel Palazzo dei Normanni; il Generale ama il rock, e la colonna sonora della mia breve intervista sarà “Safe in New York City” (AC/DC, anno del signore 2000). E ama anche le granite al caffè, che sorbisce una dopo l’altra mentre mi ripete di filato la filastrocca che abbiamo già sentito in una decina di missioni di pace per esportare la democrazia: stiamo cercando di conquistare il cuore e l’anima di questo popolo, non possiamo abbandonarli fin tanto che la legalità e la sicurezza non sono ripristinate, ogni trattativa con gli insorgenti è inaccettabile eccetera eccetera.

La missione di pace internazionale fu fortemente voluta dalla presidente USA Clinton nel 2016 in seguito alle sommosse successive al default della regione Sicilia e alle funeste elezioni che videro da queste parti la vittoria schiacciante del partito Forza Nostra. Fa impressione rileggere cinque anni dopo le motivazioni iniziali dell’intervento, continuato senza convinzione con il passaggio all’amministrazione guidata da Lee Xu Hiao: “per fermare il cancro dell’illegalità che rende queste regioni di fatto uno stato canaglia all’interno dello stato italiano, a noi amico, che ospita la centrale internazionale del traffico di stupefacenti; per riinsegnare da zero la democrazia ai popoli siciliano e calabrese; e non per ultimo per portare nel XXI secolo la condizione femminile in questi luoghi”.

Prima di uscire, al collo del Generale noto un ciondolo a forma di peperoncino, uno di quei corni apotropaici: speriamo che gli porti fortuna.

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