Ceto medio ?

«Il contributo di solidarietà è una follia, bisogna cancellarlo»

Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria

Sono rimasto piuttosto sorpreso, nel dibattito che ha seguito la pubblicazione della “manovra economica” V3.1 (o V4 ?), da un paio di interventi, entrambi critici sul cosiddetto “contributo di solidarietà”.

Per i pochi che non lo sapessero, si tratta di una tassa aggiuntiva che graverà per i prossimi due anni su quanti dichiarino un reddito superiore ai 90.000 € lordi. Ebbene, Casini (UDC) ne ha parlato come di una mazzata sul ceto medio; Marcegaglia (Confindustria) l’ha definita tout court una follia.

Proviamo a fare quattro conti.

Un insegnante precario guadagna circa 1.300 € al mese per 13 mensilità (se è fortunato e non viene licenziato al termine dell’anno scolastico); un insegnante di ruolo con una buona anzianità arriva a 1.700-1.800 € mensili. Il personale docente statale intasca pertanto tra i 17 e i 23.000 € netti annui; un’ampia fetta degli altri impiegati pubblici ha stipendi all’interno di questo intervallo.

Senza considerare eventuali detrazioni o deduzioni, chi dichiara un reddito di 90.000 € percepisce circa 58.500 € netti; in sostanza, attorno ai 5.000 € netti mensili per 12 mesi, circa tre volte lo stipendio di un insegnante. Io ho lavorato fino a pochi mesi fa in un’azienda della conoscenza, che elargisce stipendi superiori rispetto alla media; ebbene, un quadro con importanti responsabilità su grossi progetti è ben felice se guadagna tra i 50 e i 55.000 € lordi (inclusa la parte variabile), cioè meno di 40.000 € netti. Un dirigente di livello basso ha una busta paga di 70-75.000 € annui; 90-100.000 € è lo stipendio di un alto dirigente. Questo è vero, credo, per la maggior parte delle aziende private.

In sostanza, il “contributo di solidarietà” colpirebbe in buona parte i dirigenti d’azienda, oltre a categorie professionali ad alto reddito, come farmacisti, notai, dentisti. Ammesso che la loro dichiarazione IRPEF coincida con gli effettivi ricavi.

Capisco perciò il progetto del Pierferdi: si tratta in genere di elettori del PdL, che, delusi e colpiti da una simile tassa, potrebbero rivolgersi altrove, e avrebbero così trovato una nuova sponda politica. La mossa è legittima, anche se di respiro corto;  basta solamente non prendere gli italiani per coglioni (secondo una nota definizione di S. B.) definendo dirigenti d’azienda, dentisti e notai, “ceto medio”.

Altrettanto comprensibile è la dichiarazione della Emma, che difende la sua classe dirigente, promuovendo nel contempo l’ennesima riforma delle pensioni; ben spalleggiata in questo dall’organo della Confindustria, che propone addirittura di pensionare tutti quanti a 70 anni. La Marcegaglia dimentica però alcuni elementi fondamentali:

  1. Il sistema pensionistico è stato, negli ultimi vent’anni, riformato almeno cinque volte, con buona soddisfazione dei nostri partner europei. Non sarebbe ora di dare qualche certezza ai pensionandi, che magari vorrebbero pianificare la propria vita futura: raggiungere i figli in Venezuela, trasferirsi in Umbria o semplicemente coltivare il proprio orticello ?
  2. Il bilancio dell’INPS, per la parte relativa alla previdenza, è in attivo, nonostante l’evasione dei contributi largamente praticata da artigiani e piccole industrie, e nonostante l’INPS si sia fatta carico, dal 2003, delle ricche pensioni dei dirigenti (gestione largamente in deficit), che dunque possono ricevere lauti assegni grazie al “contributo di solidarietà” dei loro sottoposti. Si veda al proposito tutta la letteratura sulla confluenza dell’INPDAP nell’INPS e sui privilegi pensionistici dei dirigenti d’azienda (es.: http://www.manageritalia.it/content/download/Informazione/Giornale/Dicembre2002/pag28.pdf)
  3. Le aziende affiliate alla Confindustria da anni fanno di tutto per espellere dal lavoro i propri dipendenti ultracinquantenni, più costosi, meno motivati e flessibili dei precari trentenni. Aggiungiamo che l’attuale governo prova da tempo a riformare lo Statuto dei lavoratori, nel senso di una maggiore “flessibilità”, fumoso concetto che in italiano si traduce con la libertà di licenziare.
  4. Il quadro è completo: i lavoratori dipendenti ultracinquantenni sarebbero così, nei voti di governo e industriali, troppo vecchi per stare nelle aziende (a meno che siano nel frattempo ascesi al cielo della dirigenza), troppo giovani per la pensione. Cornuti e mazziati.

Questo accanimento sulle pensioni di anzianità non ha nulla a che fare con l’economia, ma è tutto politico. I lavoratori dipendenti ultracinquantenni sono per la maggior parte elettori del centro-sinistra; solo una piccola parte, oltre ai lavoratori autonomi, vota Lega. Sono pertanto molto distanti dal PdL, dal cosiddetto centro, e a maggior ragione, dal nascente partito degli industriali e di Montezemolo (Dio ce ne scampi e liberi); di conseguenza sacrificabili per evitare ulteriori tasse (contributo di solidarietà o patrimoniale) al “ceto medio”.

Sessantaduenne che avresti voluto andare in pensione l’anno prossimo: dovrai aspettare almeno altri dodici mesi, forse ventiquattro; sai, la finestra mobile e chissà che altro si inventeranno. Consolati: il nuovo SUV del tuo capo è salvo.

 

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